SUMER: LA MISTERIOSA TERRA DEGLI DÈI DELL’UNIVERSO
È ormai certo che le “parole antiche” che per milioni di anni costituirono la lingua della cultura e degli scritti religiosi altro non erano, in realtà, che la lingua di Sumer. E non vi è dubbio che gli “antichi dèi” fossero proprio gli dèi sumeri: non sono state mai trovate, infatti, testimonianze, tradizioni o genealogie più antiche di quelle riguardanti gli dèi di Sumer.
A una prima occhiata, sembra che questi dèi (nell’originale sumerico come nelle forme successive accadica, babilonese o assira) ammontino a centinaia; ma se proviamo a classificarli, il quadro si ridimensiona notevolmente.
Al vertice vi era un pantheon di Grandi Dèi, tutti imparentati l’uno con l’altro: se togliamo le innumerevoli figure minori – nipoti, pronipoti, ecc.- ne emerge un gruppo di divinità molto più ristretto e coeso, nel quale ciascuno aveva un ruolo preciso da svolgere, poteri e responsabilità ben definite.
I Sumeri credevano anzitutto in divinità “dei cieli”, come Apsu, Tiamat, Anshar, Kinshar, che esistevano “prima che le cose fossero create” e che, per quanto sappiamo dalle fonti di cui disponiamo, non tutti sono apparsi sulla Terra.
Se guardiamo un po’ più da vicino questi “dèi” che esistevano prima della creazione della Terra, ci accorgiamo che essi corrispondono ai corpi celesti che formano il nostro sistema solare, e, come vedremo, i cosiddetti miti sumerici relativi a queste entità celesti sono, in realtà, concetti cosmologici ben precisi riguardanti la creazione del nostro sistema solare.
Vi erano poi divinità minori che stavano sulla Terra.
Si trattava di semplici divinità locali, i cui centri di culto erano per lo più piccole città di provincia e che erano preposti al massimo a poche, limitate operazioni: per esempio la dea NIN.KASHI.
Intorno a questi dèi non si tramandavano racconti epici o eroici, essi non possedevano armi portentose né facevano tremare gli altri dèi a un loro cenno.
Ricordano molto, in verità, la schiera di giovani dèi che marciava in coda alla processione raffigurata sulle rocce della città ittita di Yazilikaya. Tra un gruppo e l’altro vi erano gli Dèi del Cielo e della Terra, i cosiddetti “antichi dèi”.
Erano proprio gli “antichi dèi” dei racconti epici, quelli che, secondo quanto credevano i Sumeri, erano scesi dal cielo sulla Terra.
Non si trattava di semplici divinità locali: erano dèi nazionali, o addirittura internazionali.
Alcuni si trovavano sulla Terra fin da prima che vi comparisse l’uomo; anzi, si riteneva che l’esistenza stessa dell’uomo fosse il prodotto di un atto creativo deliberatamente perpetrato da queste divinità.
Esse erano davvero potenti, capaci di imprese che andavano ben al di là dell’abilità e della comprensione umana; eppure questi dèi non solo avevano un aspetto umano, ma mangiavano e bevevano come gli uomini e provavano tutta la gamma di sentimenti umani, dall’amore all’odio, dalla fedeltà al tradimento.
Anche se nel corso dei millenni i ruoli e le posizioni gerarchiche di certe divinità andarono modificandosi, alcune di esse non abbandonarono mai una posizione di preminenza che le rendeva oggetto di una venerazione internazionale.
Se guardiamo con maggiore attenzione questo gruppo principale, vediamo che esso dà forma a una dinastia di dèi, una sorta di famiglia divina, strettamente legata ma anche aspramente divisa.
Il capo di questa famiglia di Dèi del Cielo e della Terra si chiamava AN (o Anu, nei testi assiro-babilonesi). Egli era il grande padre degli dèi, il loro re; il suo dominio era l’immensa distesa dei cieli e il suo simbolo era una stella.
Nella scrittura pittografica sumerica, la stella, oltre a indicare An, significava anche “cieli”, “entità divina” o “dio” (derivato di An). Questi quattro significati del termine rimasero invariati attraverso i
secoli, anche quando la forma di scrittura si trasformò da quella pittografica sumerica a quella cuneiforme accadica, fino a quella stilizzata babilonese e assira.
A partire dalla più remota antichità e fino a quando la scrittura cuneiforme cadde in disuso – ovvero dal IV millennio a.C. fin quasi alla nascita di Cristo – questo simbolo precedette sempre il nome degli dèi, indicando che colui che veniva citato subito dopo non era un mortale, ma una divinità di origini celesti.
La dimora di Anum, la sede della sua sovranità, era nei cieli.
È qui che gli dèi del cielo e della terra venivano quando avevano bisogno di un consiglio o di chiedere un favore, ed è qui che si riunivano per dirimere le controversie che sorgevano
tra loro o per prendere decisioni importanti.
Numerosi testi descrivono il palazzo reale di Anu (i cui portali erano sorvegliati da un dio dell’Albero della Verità e da un dio dell’ Albero della Vita), il suo trono, il modo in cui gli si rivolgevano gli altri dèi o come sedevano davanti a lui.
I testi sumerici raccontavano anche di casi in cui non solo agli dèi, ma anche ad alcuni mortali era stato consentito di ascendere alla dimora di Anu, soprattutto con lo scopo di ottenere l’immortalità.
Uno di questi casi riguardava Adapa (“modello di Uomo”). Egli era così perfetto e devoto al dio Ea, che lo aveva creato, che Ea fece in modo di mandarlo da Anu.
Prima che egli partisse, Ea gli descrisse ciò che lo aspettava.
Adapa, Stai per andare da Anu, il Capo supremo.
Prenderai la strada che porta al Cielo.
Quando sarai arrivato al Cielo e ti sarai avvicinato alla porta di Anu, lì, in piedi presso la porta, troverai “Colui che porta la vita” e “colui che fa crescere la verità”.
Guidato dunque dal suo creatore, Adapa «salì al cielo… e si avvicinò alla porta di Anu». Ma quando gli fu offerta
l’occasione di divenire immortale, Adapa rifiutò di mangiare il “pane della vita”, convinto che Anu, adirato con lui, gli avesse offerto del cibo avvelenato. Venne quindi rimandato sulla Terra come sacerdote consacrato, ma sempre mortale.
Un’eco di questa credenza sumerica secondo cui non solo gli dèi, ma anche certi mortali potevano salire alla dimora divina si ritrova nell’Antico Testamento, dove si parla dell’ascesa al cielo di Enoch e del profeta Elia.
Anu viveva dunque in una dimora celeste, ma i testi sumerici parlano di casi in cui egli discese sulla Terra, sia in momenti di grande crisi, sia per visite cerimoniali (quando era accompagnato dalla sua consorte ANTU), sia (almeno una volta) per fare della pronipote IN.ANNA la sua sposa terrena.
Poiché non risiedeva stabilmente sulla Terra, non si riteneva necessario attribuirgli in via esclusiva una città o un centro di culto, ma si costruì per lui una dimora, o “alta casa”, a Uruk (la biblica Erech), dominio della dea Inanna.
Tra le rovine di Uruk figura ancora oggi un enorme tumulo artificiale, in cui gli archeologi hanno trovato tracce di un tempio più volte ricostruito – il tempio di Anu, appunto; vi furono scoperti non meno di diciotto strati successivi, segno che si trattava di un sito sacro, che non poteva mai rimanere senza un tempio.
Il tempio di Anu era chiamato E.ANNA (“casa di An”) e, almeno in alcune delle sue fasi, doveva avere un aspetto davvero spettacolare. Secondo la tradizione, erano stati gli dèi stessi a costruirne alcune parti. «Il cornicione era come rame», «le sue grandi mura arrivavano a toccare le nuvole – un luogo davvero alto fino al cielo»; «era la casa dal fascino irresistibile, dall’incanto senza fine».
E i testi precisano anche qual era la funzione di questo tempio: «la Casa per discendere dal cielo».
Una tavoletta proveniente da un archivio di Uruk ci illustra con quale pompa e sfarzo veniva accolta questa specie di “visita di stato” di Anu e della sua sposa.
Poiché il documento è alquanto danneggiato, conosciamo la cerimonia solo da un certo punto in poi, da quando, cioè, Anu e Antu erano già seduti nel cortile del tempio. Gli dèi, “esattamente nello stesso
ordine di prima”, formavano poi una processione, davanti e dietro colui che portava lo scettro. Il protocollo prescriveva quindi:
Essi scenderanno nella Maestosa Corte e si volgeranno verso il dio Anu.
Il Sacerdote della Purificazione solleverà lo scettro, e colui che porta lo scettro entrerà e si siederà.
Gli dèi Papsukal, Nusku e Shala si siederanno infine nella corte del dio Anu.
Le dee, intanto, “la divina progenie di Anu, le figlie divine di Uruk”, portavano un secondo oggetto, di cui non è chiaro il nome e neanche la funzione, a E.NIR, “La casa del letto d’oro della dea Antu”. Poi tornavano in processione alla corte, dove Antu era seduta. Mentre, secondo un rigido rituale, veniva
preparato il pasto serale, un sacerdote spalmava una mistura di “buon olio” e vino sui cardini della porta del santuario in cui più tardi Anu e Antu si sarebbero ritirati per la notte: un atto di cortesia, a quanto sembra, per far sì che la porta non cigolasse mentre le due divinità dormivano.
Mentre veniva servito il “pasto serale” – diverse bevande e antipasti – un sacerdote-astronomo saliva “all’ultimo piano della torre del tempio principale” per osservare il cielo. Doveva
aspettare l’ascesa, in una determinata parte del cielo, del pianeta chiamato Grande Anu del Cielo, e quindi recitare due composizioni: A colui che diviene sempre più splendente, il pianeta celeste del Signore Anu e È sorta l’immagine del creatore.
Avvistato il pianeta e recitate le poesie, Anu e Antu si lavavano le mani con l’acqua di una bacinella d’oro e
cominciava a questo punto la prima parte del convito.
Poi, anche i sette Grandi Dèi si lavavano le mani con l’acqua attinta da sette grandi recipienti d’oro e si dava inizio alla seconda parte della festa. Seguiva il “rito del lavaggio della bocca” e i sacerdoti intonavano l’inno Il pianeta di Anu è l’eroe del cielo.
Si accendevano delle torce e infine dèi, sacerdoti, cantori e servitori si disponevano in processione e accompagnavano i due visitatori al santuario per la notte.
Quattro tra le maggiori divinità restavano nel cortile e vegliavano fino allo spuntare del giorno; altri, invece,
montavano la guardia presso altre porte. Tutta la città, intanto, si illuminava e festeggiava la presenza dei due visitatori divini.
A un segnale proveniente dal tempio principale, i sacerdoti ditutti gli altri templi di Uruk dovevano “accendere fuochi con le torce” e altrettanto dovevano fare anche i sacerdoti delle altre città. Poi:
Gli abitanti di tutta la regione
accenderanno fuochi nelle loro case, e offriranno banchetti a tutti gli dèi…
Le guardie delle città accenderanno fuochi nelle strade e nelle piazze.
Anche la partenza dei due Grandi Dèi era pianificata fin nei minimi dettagli
Il diciassettesimo giorno, quaranta minuti dopo il sorgere del sole, la porta si aprirà davanti agli dèi Anu e Antu, ponendo fine al loro soggiorno. La parte finale di questa tavoletta è andata perduta, ma un altro testo con tutta probabilità descrive la partenza degli dèi: la colazione mattutina, le formule di commiato, le strette di mano
(“si afferrano le mani”) con gli altri dèi.
I Grandi Dèi venivano quindi condotti al luogo della partenza su portantine simili a un trono, portate a spalla da funzionari del tempio. Una raffigurazione assira, benché molto posteriore, di una processione di divinità ci dà forse un’idea di come Anu e Antu venivano portati in corteo a Uruk Mentre la processione passava per le cosiddette “strade degli dèi” venivano recitate formule speciali; all’approssimarsi del “molo sacro”, poi, si cantavano salmi e inni, finché non si arrivava alla “nave di Anu”.
Cominciavano allora i riti di commiato e, accompagnandoli con ampi movimenti delle braccia, si recitavano e si cantavano altre formule.
Infine, tutti i sacerdoti e i funzionari del tempio che accompagnavano il corteo, a cominciare dal sommo sacerdote, offrivano una speciale “preghiera per la partenza”:
«Grande Anu, che il Cielo e la Terra ti benedicano!»,
intonavano sette volte. In tal modo essi chiedevano la benedizione dei sette dèi celesti e invocavano gli dèi del Cielo e quelli della Terra.
Alla fine, così salutavano Anu e Antu: Che gli Dèi del Profondo, e quelli della Dimora Divina vi benedicano!
Che vi benedicano ogni giorno -ogni giorno di ogni mese di ogni anno!
Tra le migliaia e migliaia di raffigurazioni di antichi dèi che sono venute alla luce, nessuna sembra rappresentare Anu. E tuttavia egli sembra nascondersi dietro ogni statua e ogni ritratto di ogni re che sia mai esistito, dall’antichità a oggi.
Perché Anu non era soltanto il “grande re”, il re degli dèi, ma anche colui per grazia del quale altri venivano incoronati re.
Secondo la tradizione sumerica, la sovranità “fluiva” da Anu, e infatti veniva indicata con il termine Anutu (“qualità propria di Anu”). Le insegne di Anu erano la tiara (il copricapo divino),
lo scettro (simbolo di potere) e il bastone (emblema del pastore-guida ).
Ai giorni nostri, il bastone del pastore (“pastorale”) si trova più nelle mani dei vescovi che in quelle dei re, ma la corona e lo scettro sono tuttora attributi di tutti i re ancora presenti sulla Terra.
La seconda divinità più potente del pantheon sumerico era EN.LIL, il cui nome significava “signore dello spazio aereo”; egli era dunque prototipo e progenitore dei successivi “dèi delle
tempeste” che sarebbero stati al vertice degli altri pantheon del mondo antico.
Egli era il figlio maggiore di Anu, nato nella dimora celeste di suo padre. Ad un certo punto, però, in epoca antichissima, era disceso sulla Terra, diventando così il principale Dio del Cielo e della Terra.
Quando gli dèi si riunivano nella dimora celeste, Enlil presiedeva l’assemblea a fianco del padre; quando
invece gli dèi si riunivano sulla Terra, lo facevano alla corte di Enlil, nel sacro recinto di Nippur, la città consacrata a Enlil, nella quale sorgeva il suo tempio principale, I’E.KUR (“casa simile a una montagna”).
Non soltanto i Sumeri, ma anche gli stessi dèi di Sumer consideravano Enlil la divinità suprema. Lo chiamavano
“sovrano di tutte le terre” e dicevano che «in Cielo egli è il principe; sulla Terra è il capo». La sua «parola lassù fa tremare i cieli, quaggiù sconquassa la terra»:
Enlil, il cui comando giunge lontano; la cui “parola” è potente e sacra; il cui pronunciamento è immutabile;
lui che fissa i destini fino a un lontanissimo futuro…
Gli Dèi della Terra si inchinano volentieri davanti a lui; gli Dèi del Cielo che stanno sulla Terra si umiliano davanti a lui; obbediscono fedelmente ai suoi ordini.
I Sumeri credevano che Enlil fosse arrivato sulla Terra ben prima che questa venisse popolata e civilizzata. Un Inno a Enlil, il grande benefattore elenca i molti aspetti della società e della civiltà che non sarebbero mai esistiti se non fosse stato per Enlil, che aveva dato istruzioni precise, pretendendo che «si eseguissero i suoi ordini, sempre e comunque».
Non si sarebbero costruite case, né centri abitati; nessuna stalla, nessun ovile avrebbe mai visto la luce; non sarebbero nati re, né sommi sacerdoti.
I testi sumerici affermavano anche che Enlil sarebbe arrivato sulla Terra prima del “popolo dalla testa nera” (il soprannome che i Sumeri davano al genere umano). In quell’epoca preumana
Enlil aveva eretto Nippur come suo centro, o “luogo di comando”, nel quale Cielo e Terra erano unite da un certo
“legame”. I testi chiamano questo legame DUR.AN.KI (“legame Cielo-Terra”) e usano un linguaggio poetico per descrivere i primi atti di Enlil sulla Terra:
Enlil, quando segnasti i confini degli insediamenti divini sulla Terra, erigesti Nippur come tua città.
La Città della Terra, la superba, il tuo luogo puro dove l’acqua è dolce.
Tu fondasti il Dur.An.Ki al centro dei quattro angoli del mondo.
In quei giorni, quando soltanto gli dèi abitavano Nippur e l’uomo non era ancora stato creato, Enlil incontrò la dea che sarebbe poi divenuta sua moglie. Secondo una versione, Enlil la vide mentre faceva il bagno, nuda, nel fiume di Nippur. Fu amore a prima vista, ma non necessariamente finalizzato al
matrimonio: Il pastore Enlil, che decreta il fato, il Signore dagli occhi splendenti, la vide.
Il Signore le chiede di potersi unire a lei; ma lei non vuole. Il Signore le chiede ancora di unirsi a lei;
ma lei non vuole: «La mia vagina è troppo piccola, dice,
non conosce l’accoppiamento; le mie labbra sono troppo piccole, non conoscono il bacio».
Ma Enlil non era certo il tipo da arrendersi così facilmente.
Confidò al ciambellano Nushku il suo bruciante desiderio di possedere “la giovane vergine” che si chiamava SUD (“la balia”) e che viveva con sua madre a E.RESH (“la casa odorosa”).
Nushku suggerì una gita in barca e fu lui stesso a procurargli un’imbarcazione. Enlil convinse Sud ad andare con lui e, una volta in barca, la violentò.
L’antico racconto riferisce a questo punto che, sebbene Enlil fosse il capo degli dèi, questi erano così arrabbiati per il suo atto da prenderlo e scacciarlo dalla città: «Enlil, sei un immorale!» gli gridarono. «Vattene subito da questa città!».
Secondo questa versione Sud, incinta, seguì Enlil e lo sposò.
Un’altra versione parla invece di un Enlil pentito che va in cerca della ragazza e manda il ciambellano dalla madre di lei per chiederle la sua mano. Sia come sia, Sud divenne la moglie
di Enlil, e questi le diede il titolo di NIN.LIL (“signora dello spazio aereo ).
In realtà, però, né lui né gli dèi che lo avevano scacciato si erano accorti che non era stato Enlil a sedurre Ninlil, bensì viceversa.
La verità è che era stata la madre di Ninlil a indurla a fare il bagno nuda nel fiume al quale Enlil si recava abitualmente per le sue passeggiate, sperando che il dio notasse la ragazza e fosse preso dal desiderio di abbracciarla e di baciarla.
Qualunque sia l’antefatto delle nozze, Ninlil fu comunque tenuta in altissima considerazione da quando Enlil le aveva dato il titolo di “signora”.
Con una sola eccezione, dovuta (crediamo) a esigenze dinastiche, a Enlil non sono mai state attribuite relazioni adulterine. Una tavoletta votiva trovata a Nippur mostra Enlil e Ninlil che ricevono cibo e bevande nel loro tempio. La tavoletta era stata commissionata da Ur-Enlil, il “domestico di Enlil”
Il terzo Grande Dio di Sumer era un altro figlio di Anu, e aveva due nomi: E.A. ed EN.KI. Come suo fratello Enlil,
anch’egli era un Dio del Cielo e della Terra, cioè una divinità originaria dei cieli, che ad un certo punto era scesa sulla Terra. Il suo arrivo sulla Terra è associato, nei testi sumerici, a un’epoca in cui le acque del Golfo Persico si spingevano nell’entroterra molto più di oggi, trasformando tutta la parte
meridionale della regione in una immensa palude.
Ea (il cui nome significava letteralmente “casa-acqua”, cioè “colui la cui casa è l’acqua”) era un abile ingegnere e fu lui stesso a
progettare e dirigere i lavori di costruzione di canali, dighe sui fiumi e prosciugamento degli acquitrini. Egli amava navigareper quei canali e nelle paludi: l’acqua, anzi, come indicava il suo stesso nome, era la sua casa. Per questo costruì la sua “grande casa” nella città che egli stesso aveva fondato ai
margini delle paludi, una città non a caso chiamata HA.A.KI (“luogo dei pesci d’acqua”), ma conosciuta anche come E.EI.DU (“casa di chi va lontano”).
Secondo i testi sumerici, compresa una sorprendente autobiografia dello stesso Ea, egli era nato nei cieli ed era sceso in Terra prima che su di essa comparissero insediamenti abitati o forme di civiltà. «Quando mi avvicinai alla terra, vidi grandi inondazioni», disse, per poi passare a descrivere tutto ciò che
fece per rendere quella terra abitabile.
Riempì per prima cosa il fiume Tigri di «acque fresche, apportatrici di vita»; incaricò un dio di sovraintendere alla costruzione di canali, per rendere
navigabili il Tigri e l’Eufrate; depurò le paludi, le riempì di pesci e ne fece la dimora di uccelli di ogni tipo, quindi vi fece crescere le canne, che si dimostrarono un ottimo materiale da costruzione.
Passando dalle acque dei mari e dei fiumi alla terraferma, Ea si vantava di essere stato lui a «dirigere l’aratro e il giogo… aprire i sacri solchi nella terra… costruire le stalle e gli ovili». E il testo autocelebrativo (che gli studiosi hanno intitolato Enki el’ordine del mondo) proseguiva attribuendo al dio stesso il merito di aver portato sulla Terra l’arte della fabbricazione dei mattoni, le tecniche di costruzione di abitazioni e città, di
lavorazione dei metalli, ecc.
Oltre a presentare il dio come il più grande benefattore dell’umanità, colui che aveva introdotto la civiltà, molti testi ne mettevano in luce anche il ruolo primario che egli svolgeva
nelle riunioni degli dèi. I testi sumerici e accadici sul Diluvio universale, che devono aver costituito la fonte del racconto biblico, parlano di Ea come del dio che, contro la decisione presa dall’assemblea degli dèi, consentì a uno dei suoi seguaci più fidati (il “Noè” mesopotamico) di scampare al disastro.
Non solo: i testi sumerici e accadici, che – come l’Antico Testamento – attribuivano la creazione dell’uomo a un atto deliberato e consapevole di un dio o degli dèi, investivano Ea di un ruolo chiave in questo contesto. Grazie alle sue approfondite conoscenze scientifiche, era stato proprio lui a mettere a punto il metodo e il procedimento di creazione dell’uomo.
E, come “creatore”, era stato lui a condurre Adapa – l’uomo modello da lui stesso creato – in cielo, al cospetto di Anu, sebbene quest’ultimo avesse deciso di non concedere al genere umano la “vita eterna”.
Le fonti sono piene di allusioni a questa bruciante gelosia di Ea nei confronti di Enlil. In effetti, l’altro nome di Ea (se non il suo nome principale) era EN.KI (“signore della Terra”) e, nel parlare della divisione del mondo tra i tre dèi, i testi insinuano il dubbio che forse tutto fu lasciato all’arbitrio della sorte e che magari’ solo per un semplice lancio di dadi Ea perdette il dominio della Terra a vantaggio di suo fratello Enlil.
Gli dèi si sono stretti le mani, e tirando a sorte hanno fatto la divisione.
Anu allora salì al Cielo.
A Enlil fu dato il dominio sulla Terra. I mari, chiusi come da un cappio,
li diedero a Enki, il Principe della Terra.
Certamente il risultato di questo sorteggio non deve essere piaciuto molto a Ea/Enki. Ma dentro di sé egli covava un risentimento ben più profondo, per la ragione che egli stesso ci
spiega nella sua autobiografia: era lui, non Enlil, il primogenito, e perciò spettava a lui, e non a Enlil, il titolo di
erede legittimo di Anu:
«Mio padre, il re dell’universo,
mi generò nell’universo…
Io sono il seme fecondo
generato dal Grande Toro Selvatico.
Io sono il figlio primogenito di Anu.
Io sono il Grande Fratello degli dèi…
Io sono colui che è nato
come figlio primogenito del divino Anu».
Poiché le leggi sociali e familiari che regolavano la vita degli uomini nell’antico Medio Oriente erano state date dagli dèi, è ragionevole presumere che esse non fossero che copie di quelle valide per gli dèi.
Frammenti di testimonianze provenienti dai tribunali o da cronache familiari trovate in siti archeologici come Mari e Nuzi hanno confermato che i costumi e le leggi bibliche in uso presso i patriarchi ebraici erano le stesse che regolavano la vita dei re e dei nobili in tutto il Medio Oriente.
Da questo punto di vista, perciò, i problemi di successione dei patriarchi ci interessano molto.
Abramo, che non riusciva ad avere figli per l’apparente sterilità di sua moglie Sara, generò un primo figlio, Ismaele, con l’ancella di lei. Ismaele venne però escluso dalla successione non appena Sara stessa mise al mondo un figlio, Isacco.
La moglie di Isacco, Rebecca, partorì due gemelli. Quello che virtualmente era il primogenito, Esaù, era un bambino rossiccio, peloso, che fin dall’inizio si comportò in modo rozzo e maleducato, a differenza del fratello Giacobbe, più raffinato e decisamente preferito dalla madre Rebecca.
Quando Isacco,ormai vecchio e semi cieco, manifestò l’intenzione di fare testamento, Rebecca riuscì con l’astuzia a far ricadere i diritti di successione su Giacobbe anziché su Esaù.
Non meno travagliata fu la successione di Giacobbe.
Benché egli avesse servito per vent’anni Labano per ottenere la mano di sua figlia Rachele, La bano lo costrinse a sposare prima la sua figlia maggiore Lia. Fu Lia a dare a Giacobbe il suo primo figlio (Ruben), dopodiché Giacobbe ebbe molti altri figli maschi e una femmina da lei e da altre due concubine.
Eppure quando infine Rachele gli generò un figlio (Giuseppe), Giacobbe preferì lui a tutti gli altri fratelli.
Dietro tutte queste leggi e usanze di successione non è difficile intravedere il conflitto tra Enlil ed Ea/Enki. Enlil,
considerato da tutte le fonti il figlio di Anu e della sua consorte ufficiale Antu, era legalmente il primogenito. Ma il grido angosciato di Enki: «Io sono il seme fecondo… io sono il figlio primogenito di Anu», suona come l’affermazione di un fatto.
Può essere, dunque, che Enki sia figlio di Anu e di un’altra dea che era solo una concubina? La vicenda di Isacco e Ismaele, o quella di Esaù e Giacobbe, potrebbero aver avuto un precedente nella “dimora celeste”.
Anche se sembra che Enki avesse accettato che i diritti di successione spettassero a Enlil, secondo alcuni studiosi la lotta di potere tra i due non si esaurì mai. N. Kramer intitolò uno dei suoi antichi testi Enki e il suo complesso di inferiorità.
Come abbiamo visto nelle versioni originali sumeriche di parecchi eventi narrati nella Bibbia – l’episodio di Eva e del serpente nel giardino dell’Eden o il racconto del Diluvio – vi sarebbe l’eco di questa continua sfida di Enki agli editti del fratello Enlil.
A cura di universo7p